Con le parole puoi cambiare il mondo

20/06/2025
Mary Cassat, Teatro (part. 1879).

7 domande a Lucilla Giagnoni

Il percorso teatrale e umano di Lucilla Giagnoni è costellato da una miriade di spettacoli e progetti di ampio respiro, monologhi intensi e splendide lezioni, esperienze radiofoniche e televisive, consulenze artistiche e aziendali. Così non deve sorprendere se il dialogo con Lucilla è sempre spumeggiante, denso, vivace, imprevedibile. Insomma, l’avete già capito: quel che segue è giusto una sintesi della nostra chiacchierata, ricca di intuizioni folgoranti e sorprendenti digressioni.

Lucilla, nomen woman: s’indovina un destino.

È vero, l’ho raccontato nel mio spettacolo dedicato alle donne nel teatro di Shakespeare. Per ciascuno di noi il nome è daimon, ovvero destino, o meglio la voce che indica il nostro destino. Dandoci un nome, i genitori proiettano su di noi un desiderio un’aspirazione, un sogno, una cura. Mia mamma voleva chiamarmi Lucilla perché stava trascrivendo la tesi di laurea di suo cugino su Jacopo da Bassano, in particolare su Il battesimo di santa Lucilla; mio papà invece mi voleva chiamare Fiammetta; in qualche modo questa fiamma, questa luce mi ha accompagnata per tutta la vita.

Shakespeare mi ha anche insegnato a riflettere sul senso dei nomi: Desdemona, ad esempio, significa priva di daimon, cioè senza destino, e non a caso la sua voce resta spenta, soffocata. Ancora: la donna più volitiva e ambiziosa di Shakespeare, Lady Macbeth, addirittura il nome non ce l’ha, è solo l’altro lato di Macbeth. Insomma, scoprire di avere un nome – o di non averlo – è una delle sfide più importanti della vita.

Che cosa non volevi fare nella vita?

La mia “vocazione” la racconto in un altro mio spettacolo, Anima mundi. Avevo 8-9 anni, mi misi in piedi su una sedia e davanti allo specchio esclamai: «Voglio fare l’attrice di teatro». Ancora oggi mi chiedo che voce abbia parlato attraverso di me. Sì perché io non ero mai andata a teatro prima, avevo visto giusto qualcosa in televisione, niente più. Solo anni dopo ho scoperto che mia nonna Bianca faceva recite in paese, l’altro nonno era intrattenitore e musicista. Insomma, insieme al nome, il mio daimon sta in quella voce che tanti anni fa mi ha indicato la strada. Va anche detto che la mia prima esperienza con Paola Borboni (ero giovanissima) mi ha fatto capire che quel teatro non faceva per me. Per il tipo di spettacoli proposti, certo, ma soprattutto per il modello di attore che sottintendeva: girovago, senza dimora, senza progetto. In una parola: mercenario. Per tutta la vita ho saputo che a quel teatro lì non ci sarei mai più tornata.

Ho deciso di iniziare un percorso con il Teatro Settimo, insieme a Gabriele Vacis, Marco Paolini e Laura Curino. Lì ho imparato che il teatro non è solo salire su un palco, ma anche caricare un furgone, cucire i costumi, vendere gli spettacoli, spazzare il palco. Il teatro è arte e artigianato al tempo stesso, e una delle prime regole è quella di partire dai tuoi limiti e al tempo stesso trascenderli grazie all’arte. È questa la premessa e la promessa della creatività. Nel mio caso, il teatro si riduce a tre elementi: il mio corpo, la mia voce e i miei racconti. Faccio monologhi non per scelta, ma per necessità.

Mary Cassat, Nel palco (part. 1879).

Perché interpretare la Commedia di Dante depura?

Bella domanda, mi piace il termine depurare. È proprio così: quando leggo Dante, sento l’energia incanalarsi dentro di me, anima, corpo e cuore. Ecco, Dante depura perché leggerlo è un esercizio mantrico, di respirazione e preghiera, una vibrazione che ti percorre dalla testa ai piedi, e alla fine ti senti rigenerata fino alle cellule. Più volte mi è capitato di interpretare tutti i cento canti, immagina tre mesi di fila in cui ogni giorno dai voce ai mille e mille versi della Divina Commedia. Esco stremata da queste maratone, ma assolutamente rinnovata, migliore. Perché queste parole così alte vibrano in noi, sono energia che si fa sapienza incarnata.

Sulle parole: l’origine è la meta?

Le parole cambiano il mondo, lo vediamo tutti i giorni. Annullare alcune parole vuol dire annullare determinate porzioni di realtà, è sotto gli occhi di tutti; e dare importanza a certe parole vuol dire fare luce su certe questioni, dare priorità a questo o quel problema. Chi possiede le parole è un po’ come chi possedeva le mappe, e possedere una mappa in qualche modo ti faceva possedere il territorio. Con le parole, comunque, non è solo una questione di possesso, perché la parola ti accompagna, ti educa, ti aiuta. Per me andare all’origine delle parole è come risalire la propria storia genetica, andare a scoprire come hanno vissuto i tuoi antenati, le loro scelte, e perché sei arrivato fin lì.

Indagare l’origine della parola significa rintracciare l’umanità racchiusa in quella determinata espressione, quel che gli uomini vi hanno depositato nel corso dei secoli. Si tratta sicuramente un ritorno all’origine, ma anche di un percorso circolare fatto di punti infiniti e inesauribili. Non a caso ho studiato l’ebraico, e in parte il sanscrito, proprio per andare all’origine della parola che interpreto. Nelle lingue antiche le parole sono sempre pensate, e ogni lettera è stata collocata in quella posizione per creare una determinata composizione. Sono parole depositate con molta sapienza, un insegnamento affascinante e al tempo stesso stordente. Oggi troppe parole sono logorate dall’uso e dall’abuso: le parole vanno protette, salvate. I poeti questo lo sanno mirabilmente fare.

Vedo qualcosa in comune con il 7Parole.

Hai ragione, sì. Vedi, io scrivo tanto, troppo, e poi faccio una gran fatica a scegliere quali parole tenere e quali lasciare. Per me è un processo doloroso, luttuoso persino. Mi costa fatica, lacrime, rabbia. Immagino quanto debba esser complicato il lavoro di chi scrive racconti sul tuo sito. Vedi, io vorrei tenere vicino a me tutte le parole, non abbandonarne nessuna. Ma so che alcune, o molte, devo lasciarle andare: e allora comincio a scartare quelle stinte dall’uso, elimino le parole-gregge, come le chiamo io, cioè quelle che vogliono convincerti a fare quello che vogliono loro, o meglio quello che vuole chi le impiega; e vado in cerca di parole ricche di energia, che mi aiutano a colmare lo spazio tra palco e platea, cerco parole urgenti, autentiche, necessarie. Quando mi invitano nelle aziende per insegnare a a parlare in pubblico, dico proprio così: «Non ci sono trucchi o segreti: cercate parole autentiche, che facciano la differenza. In altre parole: fate sentire la vostra voce».

Il titolo del tuo libro: 7 parole!

Vero, non ci avevo fatto caso! E a proposito di coincidenze: pensa che l’altra mia pubblicazione è dedicata alle ultime 7 parole di Cristo sulla croce. Queste mie meditazioni nascono da una riflessione intorno al tema proposto e da una scrittura “barocca” che, come ti dicevo prima, va pian piano asciugata, ridotta all’essenziale; poi la riflessione si affina e completa grazie alla parola poetica, che non ha bisogno di ragionamento, ma di ascolto. Servono parole che “funzionano”, certo, ma anche parole con quel determinato suono, perché quando le pronuncerai a voce alta porteranno quella particolare vibrazione, porteranno serotonina, emoglobina, enzimi. La poesia è chimica, è fatta di carne e sangue. Proprio come il teatro.

Lucilla, qual è la tua prossima chimera?

Eh, con questa domanda mi fai guardare non solo avanti, ma anche indietro. La chimera di Sebastiano Vassalli è all’origine di tutto il mio percorso teatrale. Da lì ho poi elaborato le mie due trilogie: la prima sulla spiritualità (Vergine Madre, Big Bang e Apocalisse), la seconda dedicata all’umanità, al maschile e al femminile (Ecce Homo, Furiosa Mente, Magnificat). Ciascuna opera è nata dalla precedente, era come contenuta in embrione nello spettacolo che veniva prima. D’altronde i miei spettacoli sono sempre dei percorsi di rivelazione. Ecco, la terza trilogia si è aperta con Anima mundi, un lavoro che invita a comprendere che siamo parte di un tutto che ci travalica e trascende. Le due chimere che andranno a concludere questa Trilogia della generatività saranno Sinfonia fantastica, dedicata alla vita riguardata attraverso il tempo umano che ci è dato in sorte di vivere; e poi, visto che parlo della vita, l’ultima opera, se ne avrò il tempo, sarà una danza, un’opera buffa sulla morte, proprio perché non c’è nulla di più generativo del compimento.

Insomma, se la mappa poetica del mio percorso mi si è sempre chiarita strada facendo, un passo alla volta, in questi ultimi tempi invece mi è capitato qualcosa di nuovo: ho già chiaro il tema dei miei prossimi due spettacoli, prima era già bello se ne intuivo uno. Fin qui ho sempre seguito le briciole di Pollicino, sorprendendomi per quel che incontravo senza averlo cercato; oggi riesco a guardare oltre, a intravedere non una, ma due Chimere. Come scriveva Vassalli sulle orme di Manzoni, talvolta il cielo di Lombardia ti regala una perfetta visione: il Monte Rosa che governa la pianura, lì a portata di mano, eppure così distante e smisurato. Viene in mente la struggente ripetizione del verso di Campana: «…e ancora ti chiamo ti chiamo Chimera». Protetto dalle nuvole, celato dalla nebbia, solo a tratti il monte si concede in tutto il suo splendore. Giusto lo spazio di un bagliore.

Grazie infinite, Lucilla. La colonna sonora di questa intervista non poteva che esser la tua stessa voce. Ho scelto il canto XXXIII del Paradiso, ovvero Vergine Madre. Avviso per i nostri lettori: le musiche sono di Antonio Paolo Pizzimenti, le riprese e il montaggio di Bianca Pizzimenti: rispettivamente marito e figlia di Lucilla. Un grazie di cuore anche a loro.

Questa non è Lucilla Giagnoni. Grazie, Mary.

A cura di Claudio Calzana

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