Il poeta è l’irriducibile per definizione
Le indicazioni erano a dir poco sommarie: «Lo puoi trovare là dove la città finisce e qualcos’altro non è ancora cominciato». Grazie tante, ho pensato. Mi son messo a vagabondare ai margini di Roma, con il dubbio che, anche se l’avessi trovato, difficilmente avrebbe risposto alle mie 7 domande di 7 parole ciascuna. Ho vagato a caso, confidando nel fato, annusando certi luoghi. Verso sera l’ho trovato in un campetto a Primavalle; stava su una panchina malmessa, lo sguardo perso avanti, gli occhiali per mano. Mi son fatto coraggio, ho osato il nome: «Pier Paolo…». Si è infilato le lenti prima di voltarsi. Ha abbozzato un sorriso, che ho preso per un sì. Mi son seduto sul bordo della panca, cercando di occupare una porzione minima di suolo.
Pier Paolo, che pensa dell’Italia odierna?
Lo sguardo basso, il respiro lento. Il poeta si prende qualche secondo prima di parlare.
Proprio perché un tempo è esistita, l’Italia ora non esiste. Ha un corpo stupendo, ma dovunque lo tocchi o lo guardi, vedi, attorcigliate, le spire viscide e nere di un serpente, l’altra Italia. E non puoi certo fare l’amore con un corpo avvolto da un serpente. L’Italia trabocca di fascino e ribrezzo.
Si pizzica i pantaloni con due dita, a dar tormento alla riga. Io sono preso da quella voce insieme morbida e tagliente.
Dove sono oggi i “ragazzi di vita”?
Ma ti sei guardato intorno? Non esistono più. Se oggi volessi rigirare Accattone, non troverei più un solo giovane che fosse nel suo corpo neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato sé stessi in quel film. Non troverei più un solo giovane che sapesse dire, con quella voce, quelle battute.
È una mutazione antropologica. Quell’innocenza dolce e disperata non poteva sopravvivere in un mondo dove tutto è consumo e la miseria è spettacolo. La miseria, la fame, la morte, il dolore, tutto è spettacolo osceno. I miei ragazzi rubavano per vivere; oggi si vende l’anima per apparire.
Questo consumo di anima è più grave di quello di suolo. Io vedo solo indifferenza e consumo. E se la libertà sta nel consumo, tutto è meschino. Non vedo più la gioia della trasgressione, della colpa. Dove tutto è lecito, non c’è gioia. E men che meno innocenza, splendore.
Per sconfiggere questa indifferenza bisogna riappropriarsi del sacro in ogni gesto, scelta e azione. Se molte e gravi sono state le colpe della Chiesa nella sua lunga storia di potere, la più grave di tutte sarebbe quella di accettare la propria liquidazione da parte di un potere che se la ride del sacro e del Vangelo.
Sembra provato dal suo stesso dire. Insisto, in cerca di un movente.

I Sessantottini hanno favorito conformismo e consumismo?
Sì, è proprio così. Hanno creduto di liberarsi dai valori dei padri, ma la loro ribellione è diventata merce. Senza i valori dei padri, il consumismo non ha più avuto freni. Da quel momento la povertà è diventata una colpa, l’essere si è sacrificato all’avere.
Quei ragazzi hanno dettato la fine della differenza, la resa all’omologazione. Gli antichi ribelli sono diventati i nuovi conformisti. Quella rivolta si è fatta moda, potere, pubblicità. Il mio tempo era più facile: di qua i fascisti, di là i partigiani, la differenza era visibile al primo sguardo tanto era incisa nei corpi, in forma di vizio, o di vita.
Alla parola vita disegna qualcosa nell’aria. Provo a sviare, o meglio insisto.
Dobbiamo cercare coerenza in lei, Pier Paolo?
Quanta gioia in questa tua furia di capire! Sarebbe sbagliato non cercare coerenza in me, ma ancor più sbagliato trovarla. Ho sempre cercato lo scandalo del contraddirmi per riuscire a cogliere le contraddizioni del presente.
La mia è niente altro che mimesi. Non bisogna cercare coerenza in me: il pensiero, come il desiderio, vive solo di ferite. Io non voglio essere un simbolo, ma una ferita aperta. E le ferite, si sa, non si celebrano: si evitano.
Mi viene in mente una poesia di Benn, ma evito.

Eppure il suo principio speranza è poetico.
Hai ragione. Non ho mai avuto fede nella storia o nella politica, ma nella poesia sì. E nel sacro, certo. Raboni mi vedeve poeta in tutto tranne che in poesia, e aveva ragione, se per poesia si intende il genere letterario. Io sono poeta in quanto vedo, non in quanto scrivo.
La mia poesia non è questione di metrica o di stile, ma di resistenza; per questo non può essere consolatoria o elegante. La mia poesia non abolisce la disperazione, semmai la circoscrive; non redime, semmai resiste. Il poeta è l’irriducibile per definizione, non salva ma testimonia: e per questo dev’essere feroce.
Mi fissa con uno sguardo muscoloso, non riesco a dirlo meglio. Provo a sfuggire alla presa.
E che ne è della lingua italiana?
La lingua di oggi non rispetta più il corpo della parola, vive solo la sua ombra, nella sua ombra. Tutti si giurano puri: puri nella lingua, naturalmente, segno che l’anima è sporca. L’italiano è stato da tempo annientato dalla televisione, che impone una lingua che sembra l’erba di un giardino senza gramigna: perfetto, cioè morto.
Io scrivo – scrivevo – per restituire alla lingua un po’ di sangue, consapevole che ogni mia frase corrisponde a un funerale. Pensa a quando ho proposto di abolire i luoghi dell’omologazione, televisione e scuola media per cominciare. Anche per questo ero certo che alla mia morte non si sarebbe sentita la mia mancanza. L’ambiguità importa finché è vivo l’Ambiguo. E poi, la morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi.
Ora il suo sguardo è perso, lontano. Mi rimane solo una domanda, ne avrei mille.
E allora che resta, solitudine a parte?
Un nuovo indugio in forma di sospiro.
La pietà. Ma quella che nasce dal dolore, non dalla virtù; non quella comoda del paradiso interiore, lì la pietà si fa nemica; non quella dei santi, che assomiglia alla pazienza. Io intendo la pietà dei disperati. La pietà di quando guardi questo mondo con terrore, ma continui a parlargli come a un figlio morto che riposa tra le tue braccia, bagnato di lacrime e grida.
E al momento buono, quando hai le forze giuste, la misura, t’incammini senza fine per le strade povere, dove bisogna saper essere disgraziati e forti, fratelli dei cani.
Capisco dal suo sguardo che è tempo di commiato. Provo a mormorare un grazie, un saluto, ma il poeta mi precede: «Non c’è mai una fine, solo una forma nuova di assenza». Si alza con lentezza, si allontana. Io me ne resto lì, confuso dall’improvviso frastuono del quartiere. Realizzo che non gli ho chiesto della sua Passione. Eppure ne ha parlato, eccome.
Claudio Calzana
2 commenti a questo articolo
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.
Altri articoli
-
Possiamo farle una domanda, Italo? Anzi, 7
Abbiamo scomodato Italo Calvino per questa nostra prima intervista impossibile. Lui è stato al gioco, e gliene siamo grati. Non è da tutti, anzi: è solo dei maggiori. A voi lettori raccomandiamo di accogliere con […]Leggi l'articolo -
La letteratura è tutto quello che sappiamo
7 domande a Giulia Ciarapica Ricordo bene i primi passi di Giulia Ciarapica come critica letteraria, o book blogger, come si usava dire una dozzina d’anni fa. Già a quel tempo, la giovanissima Giulia aveva […]Leggi l'articolo -
Con le parole puoi cambiare il mondo
7 domande a Lucilla Giagnoni Il percorso teatrale e umano di Lucilla Giagnoni è costellato da una miriade di spettacoli e progetti di ampio respiro, monologhi intensi e splendide lezioni, esperienze radiofoniche e televisive, consulenze […]Leggi l'articolo -
L’aforisma è come un coltellino svizzero
7 domande a Mario Postizzi Avvocato e giurista di lungo corso, e Presidente della Fondazione dell’Orchestra della Svizzera italiana, Mario Postizzi è una delle voci più originali della scrittura aforistica contemporanea. Ticinese, coltiva la parola […]Leggi l'articolo

Lucidamente e terribilmente AUTENTICO .
Grazie, Luciana, grazie di cuore.