Il ghiacciolo in filosofia? Semiotica del refrigerio

Che cos’è un ghiacciolo? Non già un semplice corpo gelato trattenuto da un bastoncino, ma una manifestazione eidetica dell’estate, una concreta intuizione della freschezza sotto forma di idea aromatizzata a questo o quel gusto. Il ghiacciolo non è, bensì si dà, ovvero si offre al soggetto nella sua doppia natura: freschissima solidità e promessa di liquefazione.
In termini husserliani, si tratta di un noema gustativo che, pur essendo esperito nei suoi accidenti — forma, colore, sapore — rimanda a un’essenza superiore: la nostalgia dell’infanzia, in primo luogo, e il sollievo dal caldo, già che ci siamo.
Ora, se volessimo seguir le peste di Umberto Eco, potremmo azzardare che il ghiacciolo sia espressione di una peculiare semiotica del refrigerio: segno iconico e al contempo indicale del sollazzo termico. È dolce, ma non troppo; artificiale, ma in un modo che rassicura; colorato in mille modi, senza annoiare mai.
Il bastoncino, poi, è il suo “complemento oggetto”: ne consente l’accesso fenomenico senza scioglimenti traumatici, e sopravvive al consumo come residuo ontologico, spesso leccato anche da asciutto, per pura intenzionalità ludica. Il legno è essenza del gelato, dunque, ma anche assenza del medesimo, accidenti.
Infine, ogni ghiacciolo è una riduzione al sapore: sospendiamo sempre e comunque il giudizio sul suo valore nutrizionale e ci lasciamo guidare dalla coscienza di un’esperienza di freschezza che il cavo orale diffonde in tutto il corpo. Così, tra un morso e un brivido, si compie la sintesi trascendentale del refrigerio: e tutto diventa fresco, dolce, momentaneamente assoluto. In breve: l’estate si fa estasi.
E dopo tutta questa bella tiritera, che ne dici di comporre qualche racconto sul gelato?
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