Il rito del forno e del pane
Il pane, si sa, ha una storia antica di migliaia di anni. E per secoli e secoli il rito del pane si è consumato allo stesso identico modo, senza sostanziali varianti. Dal pane dipendeva la sopravvivenza, dunque il lavoro dalla semina alla cottura era sacro e lo spreco bandito. Ne Il giorno di giudizio di Salvatore Satta questi aspetti emergono con un vigore tellurico e profondo. Il romanzo è uscito postumo nel 1977, l’anziano protagonista rievoca momenti della sua prima età. Un’epoca non così lontana da noi: un secolo, forse poco più.
«Per cuocere il pane venivano donne del vicinato, perché l’impresa era grossa, e bisognava impastare, tirare la pasta in larghe sfoglie, passarle una a una alla donna che sedeva presso la bocca del forno, con le cocche del fazzoletto rialzate sulla testa, il viso illuminato nell’ombra. Questa metteva la sfoglia su una pala liscia e sottile, di quelle che fabbricavano d’inverno i pastori di Tonàra, immobilizzati dalla neve, e scendevano a venderle a Nuoro di primavera, sui loro magri cavalli. La donna posava la sfoglia sulla farina, l’infilava nel forno e la sfoglia al calore diventava, se era ben fatta, un’immensa palla, che veniva passata a un’altra donna seduta con le gambe in croce davanti a un panchetto, e con un coltello la ritagliava lungo i bordi, e ne venivano fuori due ostie fumanti che pian piano s’irrigidivano, diventavano croccanti, e andavano a formare le alte pile che poi si sarebbero infilate nella credenza.
Dal fondo di quali millenni fosse venuto quel pane Dio solo lo sa: forse lo avevano portato gli ebrei che erano stati risospinti dall’Africa, nei tempi dei tempi. Il lavoro aveva la solennità di un rito, anche perché si protraeva fino alla mattina, e le ore tarde portavano il silenzio: i ragazzi sgusciavano nella porticina stretta, avvampavano al calore, s’inebriavano del profumo di pane e di ceppi ardenti di lentischio, rapiti dai guizzi delle fiamme sulle pareti fumose, ma anche un poco intimiditi da quelle donne operose, che erano serve. Queste vedevano con occhi festosi i figli del padrone, e come in un gioco di prestigio in pochi secondi preparavano un piccolo pane rotondo, in forma di anello, che immergevano rapidamente nell’acqua, dove sfrigolava come il ferro rovente, e ne usciva lucido e terso come uno specchio: invetriata, appunto si diceva. Era un momento di gioia per loro e per i ragazzi, che si sentivano tutti uniti da quella cosa ineffabile e senza padrone che è la vita».
Un ricordo personale. Nel 1980 mi trovavo a Teora, in Irpinia, volontario nel dopo terremoto. Lì conobbi un artigiano che costruiva forni per il pane, forni perfetti a detta di tutti. Quel giorno, in dialetto, mi raccontò che il forno lui lo costruiva da dentro, cioè si costruiva il forno attorno, pietra dopo pietra, per poi farsi tirar fuori dal pertugio riservato alla pala per il pane o la pizza. «Solo così, mi diceva, posso dare al forno la piega giusta».
Anche questo racconto sa di rito antico, di fatica certo, ma anche di soddisfazione per un lavoro fatto a regola d’arte. Proprio come il pane che il signor Mimmo – fondatore del ristorante che porta il suo nome – continuava a sfornare anche in tarda età. Un modo per mantenere vivo il legame con la tradizione che l’aveva preceduto e per lasciare un messaggio a chi sarebbe venuto dopo di lui.
Scrivi anche tu qualche racconto sul pane.
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